Il femminicidio è la punta dell’iceberg di un fenomeno molto più esteso e decisamente meno visibile.
Sotto la superficie si trova un mondo. Questo mondo può essere raggruppato sotto l’espressione “violenza di genere”. La violenza di genere si manifesta con il catcalling, con le battute sessiste, con i commenti sul vestiario, sul trucco, sul modo di camminare e di comportarsi, sull’orario in cui ci si trova fuori casa da sole. E almeno una di queste cose l’abbiamo vissuta sulla nostra pelle TUTTE.
Poi continua con il controllo del corpo e della libertà della donna: il controllo del cellulare, il controllo delle spese, il controllo delle amicizie e delle persone che si intendono frequentare. E almeno una di questa cose l’abbiamo vissuta in MOLTE.
Si finisce con la violenza verbale, con frasi avvilenti sul nostro valore o sulle nostre potenzialità. E non si tratta per forza di insulti, come spesso si crede: bastano frasi come “come posso fidarmi di te se ti comporti così?” o “non devi preoccuparti di lavorare, a te d’ora in poi ci penso io”. E almeno una di queste frasi ce le siamo sentire dire in PARECCHIE.
Solo INFINE, si arriva alla violenza fisica.
Ma la violenza di genere non è solo il femminicidio. Il femminicidio è il punto finale, perché, appunto, più in là non si può andare. La violenza di genere fa parte di un più generale contesto culturale. Non è colpa di un singolo, non è colpa di un gruppo più o meno ristretto di maschi male educati. È la mentalità diffusa di un contesto storico e culturale in cui tutto questo, più o meno marcatamente, è stato considerato “normale”.
E questo contesto storico e culturale è ancora attorno a noi, irrimediabilmente. Traspare nelle frasi di chi dice “non facciamo di tutta l’erba un fascio, però!” o di chi sbuffa “ora però si sta esagerando, con tutti questi discorsi sul patriarcato…”. Riemerge in chi si chiede “sì, però chissà com’era vestita” o in chi giustifica “è un bravo ragazzo, in fondo”. Appare più o meno evidente in chi non prende posizione di fronte a comportamenti palesemente sbagliati o pericolosi: “era solo un complimento”, “era solo goliardia!” o “è solo un uomo insicuro e innamorato”. E, infine, prende il sopravvento in chi, in fondo, questi comportamenti si sente legittimato a perpetuarli, in virtù di un insieme di circostanze che, appunto, in silenzio li approva, li legittima, li normalizza.
Ma tutto questo normale non è. E no: non è di poco conto, non è esagerato. È il contesto culturale che stiamo scegliendo di lasciare ai nostri figli e alle nostre figlie.
Quindi, per favore, scegliamo con cura le nostre parole. Poniamo attenzione ai nostri gesti. Smettiamo, una volta per tutte, di normalizzare ciò che normale non è e non deve MAI PIÙ essere.
Qui in Messico, mentre scriviamo, è ancora il 25 novembre. Facciamo in modo che il 25 novembre non finisca domani ☀️